venerdì 16 agosto 2013

EGITTO: A CHE SERVE UN ESERCITO

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di Antonio Moscato (da Movimento Operaio)
Anche diversi giornali borghesi non possono tacere del tutto sull’ipocrisia degli Stati Uniti che oggi devono condannare gli “eccessi” dell’esercito, sia pure senza usare mai la parola golpe che renderebbe difficile proseguire con i finanziamenti dei militari egiziani. Ma tutti i commentatori cercano la causa di questa contraddizione neglierrori soggettivi di Obama o del Dipartimento di Stato. In realtà non è facile rinunciare all’alleanza con un grande Stato come l’Egitto, e soprattutto ai rapporti con il suo esercito addestrato proprio per tutelare “l’ordine pubblico” interno e nell’area.
A che altro può servire d’altra parte quest’esercito, armatissimo ma rivelatosi sempre inefficiente di fronte ai nemici esterni, quando li aveva? Penso soprattutto al 1948-1949, al 1956, al 1967, al 1973… poi diventa solo un gendarme per conto terzi: USA e Israele. Ma anche dopo l’inizio della rivoluzione non ha mancato di contribuire al feroce assedio della striscia di Gaza, salvo ritagliarsi qualche entrata supplementare taglieggiando il contrabbando nella zona.

Sono indignato nel leggere anche sul Manifesto, in contraddizione con la nota come al solito rigorosa di Tommaso Di Francesco, una lunga intervista allo scrittore Ala al Aswani, che non esita a difendere l’intervento dell’esercito contro la popolazione, avallando le calunnie degli assassini, e sorvolando sugli effetti controproducenti di misure che possono trasformare l’Egitto in un enorme Algeria. Ala al Aswani è scandalizzato perché sa di “spari contro la polizia”, e definisce i Fratelli musulmani tout court e in blocco “terroristi”. È un atteggiamento caratteristico di una sinistra “moderata” e “riformista”. Non va dimenticato che nel dicembre 1991, al momento della soppressione della democrazia in Algeria (con l’annullamento delle elezioni dopo il primo turno) gran parte della sinistra locale ed europea, anche quella sedicente “radicale” o “estrema”, approvò il golpe, accettando l’idea che la democrazia potesse essere salvata da un esercito. Raramente gli stessi che avevano accettato quell’idea sciagurata hanno poi fatto un bilancio delle conseguenze: l’arresto della direzione eletta del FIS ha lasciato spazio per le frange davvero fanatiche e comunque foraggiate da regimi arabi reazionari, e hanno aperto la strada al bagno di sangue successivo, in cui tra l’altro i reparti speciali antiterrorismo dell’esercito hanno approfittato per mettere in conto agli islamisti anche altre stragi.
Certo allora sulla cecità della sinistra pesava l’effetto diseducativo delle bestialità raccontate sull’esercito popolare e quindi democratico della Cina, ripetute da tanti sofisticati intellettuali maoisti ancora al momento della strage di Piazza Tien Anmen, e con maggiore convinzione durante la normalizzazione della “rivoluzione culturale”, quando a molti di loro parve invece una misura interessante e positiva la costituzione di comitati in cui un terzo erano guardie rosse, un terzo funzionari e un terzo militari. Scelti da chi, visto che di elezioni non si parlava?
Oggi in Italia ci sono anche le ricadute dell’ondata di sciocchezze del periodo della riscoperta e canonizzazione della “non violenza”, che raggiunse il culmine con l’ipocrisia di Bertinotti che saliva con la spilletta della pace sul palco della parata militare… Vedi Religioni e barbarie, e Non violenza, ecc.
A me è riuscito facile non abboccare mai a queste illusioni, in primo luogo per la consuetudine con la storia: anche gli eserciti nati nel calore di una rivoluzione, da quella francese a quella russa, possono essere utilizzati presto in modo ben diverso dalla loro funzione iniziale. La storia, ma anche l’insegnamento di Lev Trotskij, che a un giovane sostenitore nordamericano, che gli chiedeva perché non aveva utilizzato l’Armata Rossa per fermare Stalin, rispose che se lo avesse fatto avrebbe sicuramente accelerato il processo involutivo.
Insomma continuo a pensare e a ripetere che tutti gli eserciti esistenti hanno una funzione negativa, e che non è il caso di attribuir loro funzioni salvifiche. Tutti. Compresi quelli che erano stati giustamente creati per difendere una rivoluzione, e che nella loro prima fase potevano essere considerati davvero “il popolo in armi”. Penso alla Francia del 1793, alla Russia del 1918, alle milizie spagnole del 1936, all’intreccio tra popolazione e forze armate rivoluzionarie a Playa Giròn nel 1961. Oggi non salverei neppure quello cubano, che pure è l’unico oggi esistente che ha una certa continuità con le sue origini, e che non è mai stato utilizzato in chiave repressiva, ma che ha subito pesante trasformazioni, e ha una presenza attiva nei processi di privatizzazione e apertura al capitalismo. Non c’è un paese dell’America Latina, dell’Asia o dell’Africa che abbia un esercito a cui la sinistra possa delegare qualche compito importante.
Due altre brevi considerazioni. La prima riguarda la Chiesa copta. Non ignoro la pericolosità degli attacchi alle chiese copte, ma non dimentico che se in qualche caso possono essere il frutto di una risposta barbarica e rozza ma spontanea all’appoggio di alcuni suoi esponenti a Mubaraq prima e al potere militare nella fase successiva, in altri casi precedenti è stato provato che erano stati organizzati da provocatori al soldo della polizia, proprio per innescare una spirale di ritorsioni a catena che doveva dividere il movimento. Meglio ricordarsene prima di portare altra acqua al mulino dell’islamofobia.
La seconda è stimolata dalle dichiarazioni di tanti saccenti che ad ogni occasione si affrettano a liquidare le “primavere arabe” mettendole come minimo tra virgolette. Molti degli scritti pubblicati sul sito, miei o di Gilbert Achcar o di altri, hanno ricordato che le rivoluzioni non trionfano subito, e anzi spesso conoscono ondate repressive imponenti. Ma se sono vere rivoluzioni riaffiorano e maturano con l’esperienza delle prime parziali sconfitte. I milioni in piazza contro Morsi a fine giugno lo confermavano, anche se momentaneamente, anche per le illusioni sul ruolo dell’esercito dei vari al Baradei o Ala al Aswani, possono subire nuove sconfitte. Perché allora tanta fretta nel dare per liquidata l’ondata delle primavere arabe? Su questo rinvio a un articolo inserito di recente, Un’intervista a Gilbert Achcar e ad altri recenti (Chastaing: L’inizio della fine dei Fratelli Musulmani e Achcar sulla dinamica della rivoluzione egiziana ) Discutiamone.
Quando ci sono milioni in movimento anche dopo i primi insuccessi sono rivoluzioni vere, anche se la loro vittoria non è certo facile. Di rivoluzioni soffocate, per inesperienza e mancanza di una direzione riconosciuta perché frutto di un’accumulazione pluridecennale di forze, ce ne sono state molte. L’esempio più clamoroso è quello della rivoluzione tedesca del 1918-1923 (non a caso cancellato dalla memoria collettiva sia dagli eredi dei socialdemocratici che collaborarono attivamente al suo soffocamento, sia dagli spontaneisti che ne esaltarono proprio le debolezze che facilitarono la controrivoluzione preventiva). Ma, di esempi di vario genere ce ne sono molti: come ho ricordato più volte, a Pietrogrado e nel mondo si davano per liquidati i bolscevichi già dopo i successi elettorali dei social-rivoluzionari nelle elezioni parziali del giugno 1917, e ancor più tra luglio e settembre quando i loro leader stavano quasi tutti in galera o in esilio, mentre il generale Kornilov designato da Kerenski preparava il suo golpe… Sembrava che stessero vincendo gli esseerre e i militari. Certo che in nessun paese oggi c’è un partito rivoluzionario anche modesto, ma non è una buona ragione per non lavorare per costruirlo!

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