mercoledì 25 dicembre 2013

GERMANIA – LA «GRANDE COALIZIONE»

 ·di Manuel Kellner

[Con una larga e scontata maggioranza (462 su un totale di 621 presenti) Angela Merkel ha ottenuto la fiducia del parlamento tedesco (Bundestag), iniziando il suo terzo mandato di cancelliera, quasi un record. E’ alla guida, questa volta, di un governo di grande alleanza, la Grosse Koalition, che raggruppa i due partiti della Democrazia Cristiana (CDU e Csu bavarese) e il partito socialdemocratico, frutto di una trattativa durata alcuni mesi. Solo 42 deputati della maggioranza teorica (504) non hanno votato la fiducia; si tratta di esponenti socialdemocratici restii all’abbraccio che giudicano perdente con la Merkel e parlamentari bavaresi ultraconservatori, scontenti dei posti ministeriali ottenuti dal loro partito. Sono invece appena 127 i deputati dell’opposizione parlamentare, costituita dai Verdi e dalla sinistra di Die Linke. Contemporaneamente si è sbloccata anche la lunga trattativa per la formazione del governo in una delle regioni più importanti della Germania, l’Assia, con il varo di un governo che mette insieme i democristiani e i verdi!
Il primo atto del governo è stato la nomina del numero due della Bundesbank, Sabine Lauteschlager, che prende il posto di Joerg Asmussen che, a sua volta, diventa sottosegretario nel ministero del Lavoro del nuovo esecutivo.
“Un governo senza pretese” titola scettico il Sole 24 ore, che non vede “ il coraggio per fare i grandi cambiamenti che l’Europa e il mondo si aspetta da Berlino”, e che considera il programma del nuovo governo teso soprattutto a fronteggiare la minaccia del populismo e di Alternative fur Deutschland, il movimento anti-euro, che si è molto avvicinato nelle elezioni alla barra del 5%, che gli avrebbe permesso l‘ingresso in parlamento.
Non è chiaro quali novità sperasse l’editorialista del giornale della Confindustria, che sembra criticare le pur modestissime concessioni sociali fatte ai socialdemocratici, anche se è obbligato a riconoscere che “negli ultimi 40 anni la diseguaglianza tra i redditi dei tedeschi è molto aumentata”.

Per comprendere i reali contenuti programmatici del governo tedesco sia sul piano della politica interna che su quella estera, non meno fondamentale, pubblichiamo questo ampio e dettagliato articolo di Manuel Kellner, membro della redazione di Sozialistiche Zeitung (SoZ)  (redazione anticapitalista.org)].
La CDU (Unione cristiano-democratica tedesca) e la CSU (Unione cristiano-sociale in Baviera) insieme al SPD (Partito socialdemocratico tedesco) hanno concluso l’accordo per dar vita alla coalizione governativa. I risultati hanno avuto l’approvazione della CDU in un “mini-congresso” ( Kleiner Parteitag), in realtà una specie di direzione allargata. Il SPD ha sottoposto la decisione ai suoi 475.000 iscritti grazie a un voto per corrispondenza. Il 76% dei votanti hanno detto “sì” alla direzione, stando ai dati forniti il 14 dicembre.
Agli inizi c’erano molte proteste di sezioni locali, dei giovani socialisti, anche di sezioni regionali – per paura di trovarsi ancora una volta invischiati in una politica troppo di destra e, soprattutto per timore, probabilmente, di trovarsi ulteriormente indeboliti sul piano elettorale dopo essere stati ancora una volta il partner minore dei cristiani conservatori, sotto la guida di Angela Merkel.
La ministra socialdemocratica del Nord Renania-Westphalia, Hannelore Kraft, considerata astro nascente nella gerarchia del partito a livello federale, si era addirittura fatta portavoce dei malcontenti in seno al SPD. Dopo un po’ di tempo, tuttavia, aveva fatto retromarcia, facendo appello a pronunciarsi a favore della grande coalizione, anche se il partito, in campagna elettorale, aveva sempre sottolineato di non volerla. Non a caso, lei e gli altri leaders del partito avevano ottenuto risultati piuttosto scarsi quando si erano presentati per la direzione al recente congresso del SPD.
Va molto relativizzato il carattere “democratico” del voto della base del partito. A quale scelta si trovavano di fronte gli iscritti? Non si trattava in realtà del consenso o del rifiuto delle circa 180 pagine dell’accordo di coalizione nazionale. Tutti i dirigenti del partito avevano già sottoscritto ed espresso pubblicamente il loro accordo prima di qualsiasi consultazione della “base”. L’effettiva domanda cui gli iscritti dovevano rispondere era in realtà la seguente: “Volete evitare la crisi del vostro partito non sconfessandone completamente la direzione e quasi tutti i dirigenti noti a livello locale?”. Visto da questo punto di vista, il “sì” della grande maggioranza dei membri del SPD non è certo una sorpresa.
Per l’essenziale, la politica abbozzata in quella lettera d’intenti che è l’accordo di coalizione rappresenta la continuità delle principali scelte che avevano già contraddistinto l’orientamento del governo uscente della cancelliera Angela Merkel, governo che non era solo della CDU-CSU con i liberali dell’FDP (Partito liberal-democratico), ma anche un governo di “grande coalizione” informale con il SPD.
La politica dell’“alt all’indebitamento” – quella cioè dei regali fiscali alle grandi imprese e ai grandi patrimoni, come pure degli “aiuti” alle banche a danno dei bilanci pubblici – era portata avanti d’intesa con la socialdemocrazia, così come la trasformazione dell’esercito tedesco (Bundeswehr) – che in base alla Costituzione tedesca (Grundgesetz) ha esclusivamente il compito di difendere il paese dagli aggressori – in un esercito d’intervento che svolge la funzione di gendarme in collaborazione con gli Stati Uniti e i membri della NATO.
In materia di ecologia, il testo basilare della coalizione proietta una politica assolutamente retrograda, di freno allo sviluppo delle energie alternative e si apre il vaso di Pandora per quanto riguarda la produzione di energia a carbone. È una politica reazionaria.
Questo vale a maggior ragione per la politica europea. Il SPD sostiene la politica dei memorandum, quella dei crudeli programmi di austerità imposti alla Grecia, ai paesi dell’Unione Europea economicamente più deboli, gettando milioni di persone nella miseria e nella disperazione. Di più, le catastrofi dei “profughi del Mediterraneo” si combattono rafforzando il dispositivo che contribuisce a produrle. Ad esempio, gli artefici della “grande coalizione” mirano al rafforzamento di Frontex, al consolidamento della fortezza europea, a spedire droni e a intensificare la propaganda nei paesi da cui provengono le persone che fuggono dalla miseria, dall’oppressione o dalla guerra, per dire loro che non vale la pena di arrivare coi barconi, perché si muore o perché non c’è futuro né posto nel “paradiso europeo”.
È vero che sono presenti nel testo d’intesa dichiarazioni d’intenti che potrebbero creare parziali progressi in campo sociale, ad esempio laMütterrente, vale a dire l’estensione della remunerazione in materia pensionistica per i genitori che hanno dedicato parte della loro vita all’educazione dei figli. Erano vantaggi finora esistenti solo per l’educazione dei bambini nati a partire dal 1992, mentre ora vanno applicate anche ai genitori di bambini nati prima.
Vi sono però altri dettagli dell’accordo molto meno confortanti. La CSU bavarese, molto conservatrice, aveva già ottenuto con il voto in parlamento una sorta di “premio” per i genitori che mandano i figli in nidi e scuole d’infanzia non pubbliche, che comportano costi e storni di fondi pubblici che potrebbero essere destinati a migliorare l’offerta pubblica di asili di qualità, che è invece notoriamente mediocre e arretrata in Germania. La “grande coalizione” non modificherà la situazione.
Anche se il FDP liberale non è riuscito a raggiungere il 5% dei voti per entrare ancora una volta in parlamento, rimangono in vigore le esenzioni fiscali per gli albergatori che erano stati introdotte dietro sua pressione dal governo uscente della Merkel. E la CSU bavarese è riuscita a imporre quello che è stato il tema principale della sua campagna elettorale: l’introduzione del pedaggio per le autostrade tedesche esclusivamente per gli “stranieri”, anche se non è per niente chiaro se questo sia conforme al diritto europeo.

La “conquista” del salario minimo

Il salario minimo garantito per legge di 8,50 euro (inferiore a quello francese) era una delle principali rivendicazioni del SPD in campagna elettorale. Nel corso delle trattative, i dirigenti del SPD ripetevano in pubblico continuamente che su questo non avrebbero ceduto. Era inaccettabile un salario minimo inferiore agli 8,50 euro l’ora, e lo era un “salario” minimo” non legale per accordo delle “parti sociali”, cioè tra organi padronali e sindacati
Poiché il SPD non ha letteralmente ottenuto niente rispetto all’altra sua rivendicazione principale, e cioè un adeguamento delle tasse rispetto ai grandi redditi e la reintroduzione di quelle sui grandi patrimoni, il risultato dei negoziati doveva ben essere presentato all’insegna del “salario minimo di 8,50 euro”.
Qualche dettaglio può essere utile. Per cominciare, in Germania ci sono 6,9 milioni di lavoratori/lavoratrici che guadagnano meno di 8,50 euro lordi l’ora; 2,7 milioni di questi/e lavorano a tempo pieno, un terzo lavora per aziende sottoposte al regime tariffario stabilito dai contratti collettivi.
Occorre inoltre rendersi conto che per una settimana lavorativa di 40 ore, gli 8,50 euro/h danno al massimo 1.450 euro mensili, che è esattamente il limite legale per evitare il sequestro salariale in caso di azione giudiziaria. L’orario di lavoro settimanale considerato normale essendo di 38 ore, le persone interessate ottengono una remunerazione a livello dei minimi sociali. Se il loro reddito deve consentire a queste persone di mantenere una famiglia, dovranno farlo integrare tramite gli organismi che distribuiscono denaro a titolo di indennità di disoccupazione di secondo ordine ( Arbeitslosengeld II). Naturalmente un reddito del genere non comporta assegni pensionistici al di sopra della soglia ufficiale di povertà.
Ora, solo parte dei/delle salariati/e interessati/e otterranno un salario minimo nei prossimi anni. Fino alla fine del 2016, restano in vigore gli accordi salariali stabiliti da contratti collettivi con salari inferiori a 8,50 euro – sono numerosi, specie nei servizi di sicurezza, nelle lavanderie e nei settori in costante crescita del lavoro interinale che recluta i “moderni schiavi”. Solo a partire dall’1 gennaio 2017 sarà generalizzato il salario minimo. Prima, i sindacati dei settori interessati potrebbero eventualmente rescindere quella parte di contratti che arrivano a scadenza per ottenere prima il salario minimo, che in tal caso entrerebbe in vigore subito. Alcuni sindacati “gialli”, tuttavia – ad esempio i sindacati cristiani del CGB (Confederazione sindacale cristiana) – avrebbero allora diritto a concludere accordi con salari inferiori agli 8,50 euro orari….
Per gli altri settori, gli 8,50 euro entrano in vigore a partire dall’1 gennaio 2015. Se però si tiene conto di un tasso di inflazione del 2% (le proiezioni della BCE), gli 8,50 euro avrebbero il potere d’acquisto di soli 7,85 euro. Considerando l’incremento della produttività, nel 2017 occorrerebbe un salario minimo di 9,70 euro per compensare inflazione e aumento della produttività.
Non è tutto. In base all’intesa, una commissione composta da esponenti delle organizzazioni padronali e dei sindacati nonché da “esperti” di economia dovrà giudicare, nel 2017, il livello raggiunto dal salario minimo, per adeguarlo alle “circostanze generali”. Ed è lasciata aperta la possibilità di un adeguamento verso il basso! La decisione di questa commissione sarebbe praticamente applicata dal’1 gennaio 2018.
Non tutto è, dunque, così chiaro rispetto alla “grande conquista” del SPD nel corso delle trattative per l’accordo di coalizione.
Resta il fatto che probabilmente, in cinque anni, nessuno parlerà più delle “sfumature” che abbiamo evidenziato. In ogni caso, l’introduzione del “salario minimo” in Germania è di fatto la principale novità. Del resto, le direzioni sindacali avevano chiamato i propri membri del SPD a votare per l’accordo di “grande coalizione”, insistendo in modo particolare sul vantaggio del salario minimo conquistato.
Il salario minimo di 8,50 euro in Germania – lasciandone da parte gli aspetti fittizi – va paragonato a quelli vigenti nei 22 paesi dell’UE che ne dispongono. Esso occupa il sesto posto dopo il Lussemburgo (11,10 euro), la Francia (9,43 euro), il Belgio (9,10 euro), l’Olanda (9,07 euro) e l’Irlanda (8,65 euro). Certamente si colloca prima della Gran Bretagna (7,78 euro). Dall’ottavo posto in poi, è la “valle delle lacrime”, che parte dalla Slovenia (4,53 euro), passando per la Polonia (2,92 euro), per arrivare in fondo con la Bulgaria (0,95 euro!).
Nelle statistiche che tengono conto dell’effettivo potere d’acquisto, l’immagine non cambia di molto. La Germania rimane al sesto posto, dopo gli stessi paesi ma con soli 7,40 euro. La Polonia è messa un po’ meglio, con 3,78 euro euro, mentre la Bulgaria sale al penultimo posto con 1,90 euro. La Romania chiude la lista con 1,85 euro (vedi WSI, Hans Böckler Stiftung, Pressendienst, 6 novembre 2013).

Progresso o continuo arretramento sociale?

Parliamo ora della seconda grande conquista del SPD, cioè la pensione a partire dai 63 anni senza deduzioni, la forma in cui viene presentata al “largo pubblico”. Il SPD, co-architetto e complice dell’introduzione della pensione a partire dai 67 anni, aveva voluto riconquistare qualche simpatia in materia di politica sociale. Sosteneva ad esempio che lavoratori e lavoratrici con 45 anni di versamenti avrebbero dovuto avere diritto al 100% della loro indennità pensionistica. I conservatori cristiani del CDU e del CSU su questo avrebbero quindi dovuto concedere qualcosa.
Si deve essere consapevoli che le carriere lavorative che implichino 45 anni di partecipazione alle assicurazioni sociali diventano, sempre più, rarissime. Si tratta perciò di una riforma di cui potrebbe godere solo uno strato molto ristretto; sicuramente ancor più ridotto per quanto riguarda le giovani generazioni.
Nel testo dell’accordo concluso, tuttavia, troviamo una formulazione ancor più restrittiva: non si tratta più di 45 anni di partecipazione, ma di 45 anni di pagamento delle quote. Ad esempio, per gli anni di disoccupazione, non è chiaro se chi percepisce l’indennità di disoccupazione II – che non versano contributi pensionistici – vedrà dedotti o meno dai 45 anni quelli di disoccupazione. E per gli anni di studi, se sono più di tre, come per gli anni di formazione professionale, la situazione è altrettanto poco chiara.
Va aggiunto che, a partire dal 2015, i/le pensionati/e che rientrano nel nuovo regolamento non andranno davvero in pensione “a 63 anni” senza deduzioni, perché l’età minima che dà diritto alla pensione sale gradatamente per chi ha effettuato versamenti per 45 anni. Nel 2015, sono già 63 anni e 1 mese, e nel 2030 si arriva già a 65 anni!
C’è però anche la Lebensleitungsrente (la pensione che tiene conto del lavoro domestico e dell’educazione dei figli), una sorta di pensione minima. Si parlava di un ammontare di 850 euro, ma questa cifra non c’è nel testo dell’accordo, anche se “in linea di principio” l’intesa stipula l’introduzione di questa nuova forma di pensione.
Potrebbe venire introdotta con un minimo più basso. Ma vi è anche un problema sistemico, denunciato con veemenza (Süddeutsche Zeitung, 2 dicembre 2012), dall’ex ministro del Lavoro Norbert Blüm, che fa parte dell’“ala sociale” della CDU. Viene chiamata in causa la solidarietà istituzionalizzata, con questa riforma approfondisce una commistione di assicurazione e di assistenza sociale. Le pensioni sono di solito finanziate dai versamenti dei/delle lavoratori/lavoratrici. Già in precedenza la riforma Hartz (l’uomo della controriforma sotto Schröder), l’Arbeitslosenhilfe (ora Arbeitslosentgeld II), era in parte finanziata al di fuori di questo sistema. Ora, l’indennità di disoccupazione per i/le disoccupati/e di lunga durata è diventata un’indennità sociale condizionale, che sottopone le persone interessate a una procedura di controllo molto repressiva, per verificare se siano bisognose o meno.
La pensione minima significa che chi ha una pensione più bassa di quella stabilita – ipotizziamo 850 euro – avrà diritto all’integrazione fino a quella cifra, i cui costi saranno finanziati al di fuori del sistema di assicurazione sociale tramite prelievi fiscali. Tra l’altro, questo sistema significa che chi ha lavorato a tempo pieno per lo stesso numero di anni percependo un salario più basso, avendo contribuito per tutta la sua vita attiva per raggiungere una pensione di 850 euro avrà la stessa pensione di chi avrà lavorato lo stesso numero di anni, magari meglio pagato, ma a tempo parziale. Si tratta di un evidente problema di giustizia sociale. Si può pensare che questo tipo di regolamento serva soprattutto a screditare il sistema di previdenza sociale per pervenire quanto prima a realizzare il modello liberista. Da un lato, un’assistenza sociale a un livello miserabile e, dall’altro lato, la generalizzazione della responsabilità privata di ciascuno nel garantirsi dagli “inconvenienti” della vecchiaia, della salute o della disoccupazione, arricchendo le società assicurative private.

Dopo la “grande coalizione”, quale altra coalizione?

Sembra precaria la dimensione della democrazia, alla luce della nuova situazione nel parlamento federale tedesco. I partiti che sostengono il governo della grande coalizione dispongono di circa l’80% dei deputati in parlamento. In aggiunta, però, i partiti della coalizione hanno sottoscritto un accordo che contiene un grande impegno di disciplina. Si può leggere, infatti, che le frazioni parlamentari dei partiti della coalizione governativa “votano sempre unitariamente” e che “sono escluse maggioranze mutevoli”. Un “centralismo” piuttosto autoritario.
Che cosa significa, insomma, questo governo di “grande coalizione” per i sindacati, per i movimenti sociali e per la sinistra politica? In linea di principio, il partito de La Sinistra (Die Linke) è ben piazzato, dato che dispone della frangia più consistente dell’opposizione in parlamento. Questo darebbe la possibilità di sfruttare occasioni per mobilitare l’opinione pubblica, i “malcontenti”, i movimenti sociali contro questa confraternita della politica dominante che cercherà di integrare ancor più del governo uscente di Angela Merkel. Di integrare e pacificare, tra l’altro, le direzioni sindacali (che già sono integrate), appoggiandosi al tempo stesso sulla “comunità del benessere relativo” rispetto ai più precari, in Germania e altrove.
C’è però un problemino. In pieno negoziato con CDU e CSU, la direzione del SDP aveva annunciato un mutamento di strategia. Ha pubblicamente dichiarato: “Non escluderemo per sempre una possibile coalizione con il partito Die Linke”. Quindi, nei prossimi anni, fino alle probabili prossime elezioni federali nel 2017, le forze “millerandiste” (da A. Millerand, il primo socialista entrato nel governo francese nel 1889) co-governiste in seno a Die Linke potrebbero trovarsi incoraggiate ad imporre un corso di adattamento che potrebbe rendere possibile partecipare a un governo diretto dal SPD nel 2017.
Il prezzo per questo sarebbe molto elevato. In primo luogo in fatto di politica estera, perché si dovrebbero accettare guerre d’intervento. Poi in materia politica, economica e sociale, perché si dovrebbe sostenere una politica di “disciplina di bilancio” e quindi di austerità, applicata nell’Europa del Sud e in Germania
Perciò, il dibattito nella sinistra tedesca deve orientarsi verso soluzioni e pratiche di solidarietà che combattano l’infernale logica della concorrenza: per l’iniziativa proveniente dal basso, che travalichi i confini delle località, dei settori e degli Stati; per elaborare obiettivi e piani di intervento unitari per i sindacati e i movimenti sociali in Europa; per un rinnovamento democratico, sociale ed ecologico dell’Europa politica, che non può che nascere da un movimento internazionalista di sfruttati/e e oppressi/e di tutti i paesi.
(tr. dal francese da Alencontre.org di Titti Pierini)

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