giovedì 12 giugno 2014

LA GRANDE CORRUZIONE DELLE “GRANDI OPERE”

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di Antonio Moscato (da Movimento Operaio)
Ogni volta che un settore della magistratura e della Guardia di Finanza formalizza un’inchiesta su alcune delle gigantesche ruberie che hanno accompagnato da sempre le Grandi Opere, e che erano state denunciate infinite volte da minoranze coraggiose inascoltate (e spesso demonizzate), parte un coro garantista, con un uso inflazionato dell’aggettivo “presunto”, che insinua preventivamente che la denuncia sia frutto di un abbaglio, se non di un pregiudizio ostile. Vale per tutti i reati commessi da potenti, sul piano politico o economico. Solo per i “terroristi” della Val di Susa non si parla mai di “presunti”.
Ma soprattutto parte un coro che ripete: “bisogna punire i corrotti, ma non si deve rinunciare alle Grandi Opere, che servono alla crescita dell’Italia”. Una proposta mistificante, che ignora le molte ragioni che rendono indissolubili i legami delle Grandi Opere (quasi sempre inutili, sempre costose e spesso dannose) con la corruzione. La prima è che il MOSE, o l’Expo15, o il TAV della Val di Susa o il Ponte sullo Stretto non rispondevano minimamente a bisogni reali della popolazione, e non avevano sostenitori spontanei sui rispettivi territori: ecco la prima ragione di un’azione corruttrice che cerca di crearli offrendo molti microappalti collaterali, del tutto inutili, a imprese non sempre al di sopra di ogni sospetto. Ne beneficiano gli impresari, ma le briciole arrivano anche più in basso, ai lavoratori. Così si crea consenso… Gli affari più grossi sono comunque sempre già assegnati in partenza, in modo bipartisan, ai soliti noti: da un lato Impregilo, dall’altro la Cooperativa Cementieri e Muratori di Ravenna legata al PD. E dato che le grandi somme che circolano per queste funzioni sono ovviamente nascoste fuori dei bilanci formali, è evidente che a ogni livello della catena decisionale c’è chi pensa di ricavarne un profitto personale.

Esempio tipico i remunerativi lavori appaltati in Calabria per preparare l’accesso a un ponte di cui tutti sapevano che non sarebbe mai stato costruito, ma che ha garantito alle imprese costruttrici di incassare comunque una fortissima penale per la mancata costruzione. Lo stesso vale per la Val di Susa, dove di un trasporto merci ad alta velocità (con risparmio al massimo di un’ora!) nessuno sentiva il bisogno, essendoci già una linea ferroviaria sottoutilizzata. Un grande numero di piccole imprese hanno ottenuto piccole commesse, mentre le grandi erano state prenotate dalle solite Impregilo e CMC.
Chi si oppone a questi lavori è stato sempre presentato (da una stampa ben foraggiata) come un conservatore, un retrogrado, un rozzo nemico del progresso, anche se in realtà si basava su pareri negativi quasi unanimi di scienziati e tecnici indipendenti. Nel caso del MOSE, era stato ignorato il parere negativo di Cacciari, per tre volte sindaco della città che si voleva salvare, e quello della commissione che doveva valutare l’impatto ambientale. Ecco una prima spiegazione del perché il costo che doveva essere inferiore ai due miliardi è lievitato fino a sei. Un fenomeno costante, riscontrato ad esempio anche nella costruzione della linea TAV Torino Milano, o in quella del Mugello, costate regolarmente 4/5 volte più di quanto preventivato, e perfino sette volte più di analoghe tratte ferroviarie in Francia o in Spagna.
Quando lo Stato chiude gli occhi di fronte a un tentativo palesemente truffaldino, che nessuno accetterebbe dall’idraulico che dopo aver fatto un preventivo per 70 euro te ne chiedesse 300 a lavoro finito, e i costi crescono a dismisura assicurando miliardi di profitti realizzati semplicemente gonfiando le spese, è evidente che chi ne beneficia ha i margini per distribuire centinaia di migliaia o anche milioni di euro a chi dovrebbe controllarlo. Il gen. Emilio Spaziante non è il primo alto ufficiale della finanza che è stato preso con le mani nel sacco. Probabilmente non aveva ripartito equamente il bottino con i suoi sottoposti…
Io stesso so direttamente di molti piccoli e medi imprenditori (tra cui un editore collocabile in una fascia medio alta) che sono stati preavvertiti quando arrivava un’ispezione, e non hanno mancato di ricambiare la cortesia. Ma è raro che queste complicità, che gran parte dei lavoratori conoscono, siano rese pubbliche.
Allora come è possibile che ci siano magistrati che hanno avuto il coraggio di farlo, e ufficiali della Finanza che hanno inseguito i grandi crimini e non solo la vecchietta che esce dal fruttivendolo senza lo scontrino? È possibile, in questa fase, come fu all’inizio di Mani pulite, perché per recuperare la fiducia della gente semplice si è data l’idea che può aspettarsi giustizia.
In realtà nonostante le apparenze degli ultimi due scandali esplosi, non è l’apparato statale che può fare controlli efficaci sistematici e generalizzati. Questo dovrebbe essere il compito di una campagna di massa antievasione, con la garanzia che chi ha contribuito a scoprire l’evasione non possa essere licenziato.
Ma non basta questo. Oggi, se ogni tanto qualche raro segugio della Finanza scopre che una serie di capitalisti “in crisi”, abituati a farsi pagare la manodopera dallo Stato e dall’INPS con la Cassa Integrazione, hanno portato milioni in Svizzera o a San Marino, di solito non succede niente: ricorsi, controricorsi, possibili solo per chi ha imponenti studi legali al proprio esclusivo servizio, rinviano alle calende greche perfino il modesto pagamento di una parte di quanto è stato sottratto al fisco.
Renzi ha come al solito detto che è addolorato dalle notizie che arrivano da Venezia, ma che fino alla sentenza definitiva di terzo grado rispetterà la “presunzione di innocenza”. Che faccia di bronzo, mentre per fare l’autista o il bidello devi essere incensurato e senza nessuna denuncia o processo aperto, per i potenti (tanto più se oltre ad essere ricchi hanno anche una carica politica) c’è sempre da attendere una sentenza definitiva, che nel migliore dei casi arriverà solo tra molti anni, senza interrompere le comode carriere.
Ma non è il solo Renzi a giustificare questa giustizia a due velocità: è una vecchia abitudine. In occasione del cinquantesimo anniversario del Regno d’Italia, a Roma fu costruito quell’orrido monumento (un po’ macchina da scrivere, un po’ gigantesco vespasiano) dedicato a Vittorio Emanuele II. Perché quell’assurdo bianco accecante, in stridente contrasto con i colori caldi della capitale? Se lo domandavano in molti. La spiegazione era semplice, fu costruito in marmo botticino proveniente dal feudo elettorale di Giuseppe Zanardelli, che aveva emanato il “regio decreto” per la costruzione del monumento. Tutti sospettarono quale fosse la ragione della scelta, ma non ci furono conseguenze legali. D’altra parte, come ho ricordato più volte, pochi anni dopo, il processo a Giovanni Agnelli (senior, il Senatore del Regno) per aggiotaggio, falso in bilancio e truffa ai danni dei veri fondatori della FIAT fu archiviato per intervento diretto del ministro della Giustizia Vittorio Emanuele Orlando… E pochi anni prima anche lo scandalo della Banca Romana, con molti omicidi eccellenti, si era concluso ugualmente con diverse assoluzioni, a partire da quella del senatore  Bernardo Tanlongo, primo responsabile dell’emissione di denaro falso. Qualcuno aveva fatto sparire le prove dal tribunale. Poi, per lunghi periodi, i crimini sono stati di nuovo coperti, e a volte chi denunciava veniva processato per calunnia. Prima del fascismo, sotto il fascismo, e anche dopo, nello Stato repubblicano. Successe ad esempio a Tina Merlin, la coraggiosa giornalista de “l’Unità” che aveva denunciato il pericolo della diga costruita irresponsabilmente dalla SADE sul Vajont ai piedi di una zona franosa…
Forse, oggi, dobbiamo consolarci per l’esistenza di un piccolo nucleo di giudici che – almeno per ora –  non si fa intimidire dalle pressioni dei complici politici dei capitalisti criminali e saccheggiatori delle casse pubbliche. Magari alcuni di questi giudici sbagliano diagnosi quando pensano di trovarsi di fronte ad attività mafiose, mentre in realtà si tratta dell’ordinario funzionamento del capitalismo, in Italia come in Giappone o in Russia o negli Stati Uniti, o in Spagna (dove hanno pescato in flagrante perfino la famiglia reale). Di solito i capitalisti riescono a nascondere i loro crimini per lunghi periodi, fino a quando le malefatte sono tali che costringono i governi a lasciare un po’ le briglie sciolte a qualche magistrato più coerente (come è stato per Tangentopoli e quando sono state tollerate, sia pur malvolentieri, alcune sentenze severe sugli assassinii sul lavoro, per la Thissen Krupp o l’amianto, salvo farle ridimensionare poi in appello).
Tuttavia quello che ci vorrebbe, senza aspettare sempre che a risolvere i problemi sia la magistratura (che per giunta in appello e in cassazione è quasi sempre assai più docile di quella di primo grado), è una grande mobilitazione di tutti quelli a cui in questi anni sono stati strappati diritti acquisiti, a partire dal posto di lavoro fisso e dal diritto a una pensione corrispondente a quella che avevano maturato, e per cui avevano versato contributi. Una rivolta di tutti quelli che per anni hanno fatto sacrifici enormi, accettando condizioni di precariato vergognose, e scoprono oggi che servivano solo ad alimentare una classe capitalista famelica, e i suoi miserabili servitori politici. Qualche piccolo segno di sacrosanta indignazione si è avuto in alcune recenti manifestazioni in difesa del lavoro, o in quella di una categoria finora disorganizzata e sottoposta a un sfruttamento feroce, i lavoratori dei call center.
Ricominciamo a scendere in piazza intanto il 28 giugno e l’11 luglio, contrapponendo alla nuova sagra della retorica di lorsignori (il reclamizzatissimo semestre di presidenza italiana dell’Europa), un “controsemestre popolare e di lotta” che getti le basi per un percorso unitario di resistenza e di opposizione alle politiche del governo e della UE. Senza delegarlo a nessuno…
(a.m. 5/6/14)

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